…Il titolo che ho dato al mio intervento è “FASD: dalla “psichiatrizzazione” della complessità alla “Cura centrata sul paziente” (meglio ancora sulla Persona)” e mi spingo poi ancora più in là definendo la FASD “un’opportunità eccezionale” per cambiare l’attuale paradigma della cura.
Ho scelto questo titolo perché ho ritenuto che questo cambiamento non sia solo un concetto, ma una realtà concreta, tangibile, realizzabile e in parte, forse non in modo strutturato, già realizzata in alcuni singoli casi e che sia la via maestra da seguire se si desidera realmente concedere alle persone con FASD di definire la propria corretta identità e permettere loro di maturare, crescere in un ambiente che possa concretamente vederle e accompagnarle nel potenziamento dei loro punti di forza, riconoscendo le loro fragilità, ma non focalizzando su di esse la costruzione del percorso di Cura…
AUTORE
Claudio Diaz
CATEGORIA
FASD, Associazione, Storie di FASD
POSTATO IL
18 Settembre 2022
SOCIAL
La FASD è un’occasione eccezionale per cambiare il paradigma della Cura: dalla “psichiatrizzazione” della complessità alla Cura centrata sul paziente (Patient-Centred Care).
Quello che segue è l’intervento integrale del nostro presidente Claudio Diaz alla 6a Conferenza europea sulla FASD (EUFASD 2022) tenutasi ad Arendal, Norvegia, dal 12 al 14 settembre.
QUI l’intervento in inglese. HERE the speech in English
“Buongiorno a tutti, innanzitutto chiedo scusa in anticipo per il mio inglese e mi auguro di riuscire a essere comprensibile.
Mi chiamo Claudio Diaz, ho 43 anni, vengo dall’Italia e ho la FASD… tra le altre cose.
Sono anche il fondatore e presidente dell’Associazione Italiana Disordini da Esposizione Fetale ad Alcol e/o Droghe (AIDEFAD – APS/ETS), la prima e unica associazione in Italia ad occuparsi specificatamente di questo spettro di disturbi del neurosviluppo.
L’Associazione è nata il 9 settembre del 2018 in occasione della Giornata Internazionale di Consapevolezza sulla FASD e dunque pochi giorni fa è stato anche il suo 4° compleanno!
Dalla sua nascita la nostra associazione ha compiuto davvero un enorme lavoro di cui sono profondamente orgoglioso e grato. Abbiamo realizzato molte attività di supporto a famiglie e persone con FASD, collaborazioni con professionisti, Enti, Associazioni, Strutture Sanitarie e Istituzioni raggiungendo obiettivi davvero storici in Italia considerando che prima di noi, lo posso dire senza timore di smentita, non esisteva pressoché nulla di concreto per chi fosse coinvolto dalla FASD, o usando un acronimo da noi coniato, dai DEFAD (Disturbi da Esposizione Fetale ad Alcol e Droghe).
In realtà ben poca era anche l’informazione e la sensibilizzazione; per non parlare della creazione di reti con altre organizzazioni che si occupano di patologie o di adozione, visto che sappiamo bene quanto il binomio adozione e FASD sia un nodo sensibile, e con strutture sanitarie al fine di rendere sempre più diffusa la possibilità di ottenere diagnosi corrette.
Il titolo che ho dato al mio intervento è “FASD: dalla “psichiatrizzazione” della complessità alla “Cura centrata sul paziente” (meglio ancora sulla Persona)” e mi spingo poi ancora più in là definendo la FASD “un’opportunità eccezionale” per cambiare l’attuale paradigma della cura.
Ho scelto questo titolo perché ho ritenuto che questo cambiamento non sia solo un concetto, ma una realtà concreta, tangibile, realizzabile e in parte, forse non in modo strutturato, già realizzata in alcuni singoli casi e che sia la via maestra da seguire se si desidera realmente concedere alle persone con FASD di definire la propria corretta identità e permettere loro di maturare, crescere in un ambiente che possa concretamente vederle e accompagnarle nel potenziamento dei loro punti di forza, riconoscendo le loro fragilità, ma non focalizzando su di esse la costruzione del percorso di Cura.
E per sviluppare questo ragionamento non farò che raccontarvi la mia storia, che è la storia delle mie famiglie (naturale e adottiva), ma che è anche la possibile storia di tanti altri ragazzi che diventeranno uomini e donne. E ve la racconterò con il cuore in mano nella speranza che il mio enorme dolore e la drammatica sensazione di essere soli contro il mondo possa suscitare in voi risonanza e contatto e che ciò vi permetta di comprendere la devastante intrusività della sofferenza che la FASD, o meglio il non riconoscimento della FASD, porta con sé.
Successivamente proverò a dirvi quello che nell’esperienza personale e nell’attingere alle centinaia di storie che conosco personalmente ho notato essere le cose che professionisti e società potrebbero fare per renderci la vita migliore e ottimizzare le risorse economiche che invece con l’attuale paradigma di cura vengono abbondantemente sprecate.
In fondo si tratta di intervenire sulle traiettorie del neurosviluppo nelle varie fasi della vita, sapendo che l’obiettivo è l’indirizzamento della traiettoria evolutiva migliore con il minor numero di successivi aggiustamenti, ma che per quanto una traiettoria abbia preso una tendenza verso l’abisso, la possibilità di modificarne la direzione è una realtà possibile.
Per concludere, cosa sono le cose che funzionano e quali no nelle nostre vite con la FASD, ma direi nel caso di tutte le vite di persone con determinati tipi di disturbi, in particolare cerebrali/psichiatrici, quindi meno visibili, se non invisibili.
Allora cominciamo. Sappiate che mi sto fidando di voi!
Sono nato il 22 giugno del 1979, quindi 43 anni fa.
A quel tempo la conoscenza della FASD era minima, se non nulla e contemporaneamente vi fu il boom delle droghe, in particolare dell’eroina, degli allucinogeni e della cannabis. Inoltre, culturalmente, il nostro paese è da sempre drammaticamente intriso della cultura alcolica, per la quale il vino è un alimento onnipresente sulle tavole delle famiglie. Credo, facendo una piccola parentesi, di poter tranquillamente dire che in ogni nucleo familiare italiano c’è una persona con un problema alcol-correlato.
In quegli anni, inoltre, vi fu anche il boom dell’HIV.
Io sono nato da una famiglia che viveva in una zona di campagna dell’Italia, molto povera, dove il disagio e le condizioni appena descritte trovarono il clima ideale per attecchire e metastatizzare.
La mia mamma naturale, Monica, mi ha avuto a 20 anni, ma prima di me aveva avuto un altro bambino, mio fratello. Io sono stato più fortunato di lui perché al sesto mese di gravidanza vi fu un intervento della polizia e dei servizi sociali, su pressione di mia nonna, e la mamma fu portata in una casa religiosa per ragazze madri. In questo modo a differenza di mio fratello, gli ultimi 3 mesi della gravidanza per me sono stati sicuramente più sereni e tranquilli e mi fu risparmiata anche la negligenza e violenza che invece mio fratello subì per circa i suoi primi due anni di vita e che andò prepotentemente a imprimere una certa direzione alla sua traiettoria evolutiva.
I primi 6 mesi della mia gestazione fui invece pesantemente esposto ad alcool, tabacco, eroina, LSD, cannabis, e chissà cos’altro, nonché al virus dell’HIV, che fortunatamente non ho però contratto.
Al momento della nascita, mia madre non mi ha riconosciuto, non ha neanche voluto stringermi o allattarmi. Semplicemente mi ha rifiutato e questo oggi sempre più sappiamo quanto peso rivesta sull’imprinting che sta ricevendo la direzione del neurosviluppo di quel bimbo, quanto compartecipi anche allo sviluppo di problematiche gastro-intestinali. Infatti, nei disturbi del neurosviluppo, tutti, in particolare nell’autismo, lo si sta indagando ed evidenziando, ma noi lo vediamo anche nei nostri ragazzi con FASD nei quali c’è una grossa presenza di disturbi gastro-intestinali.
Appena visto questo mondo sono stato subito spostato in una stanza della nursery e lì non è stato dato molto peso ai segni, sintomi e riscontri clinici che mostravo fin da subito.
In quegli anni l’ottica era: è nato, è vivo, adesso gli diamo le cure migliori, poi passerà in una famiglia amorevole, con possibilità economiche, che gli darà delle opportunità e il bambino si riprenderà. Questa, purtroppo, che accompagnò quegli anni e che fece tanti danni.
Purtroppo, fin da subito si rese evidente che qualcosa in me non andava, anche se coerentemente con le convinzioni del tempo nessuno vi diede peso; solo più di 30 anni dopo questi riscontri acquisirono significato. Mostravo una sindrome d’astinenza neonatale (NAS), oggi inequivocabile, basso peso, l’APGAR iniziale era 7, il liquido amniotico era fortemente tinto, la placenta era scarsa, la lunghezza non era ottimale, la circonferenza cranica era ai limiti inferiori e avevo gli elettroliti tutti sballati. Inoltre, anche questo 40 anni dopo, erano rintracciabili alcuni dismorfismi facciali.
Dieci giorni dopo venni portato a casa da quelli che erano diventati i miei genitori. Qui permasero a lungo le clonie, problematiche del sonno e altri sintomi correlati alla NAS, che all’epoca la pediatra spiegò con il trauma dell’abbandono…
Col passare del tempo, coll’aumentare della complessità del mondo e delle richieste del mondo, aumentava la mia difficoltà di farvi fronte.
Più il mondo era basico e più io riuscivo a starci, pur con delle stranezze evidenti, ma socialmente accettabili. Più il mondo si faceva complesso, più il mio cervello iniziava ad avere difficoltà a comprenderlo.
L’area più deficitaria era quella della supervisione degli impulsi. Per cui ero sempre più incapace di gestire la rabbia conseguente ai rifiuti, alla confusione, ai meltdown.
Si è molto precocemente mostrata, una difficoltà nella gestione dell’impulso sessuale, sperimentavo un’iperattivazione in questo senso che mi spingeva alla ricerca di questo piacere. Probabilmente, era uno strumento di autocura perché l’appagamento del piacere sessuale spegneva, momentaneamente l’iperattività, l’ansia, mi aiutava ad addormentarmi, insomma, così come l’alcol anni dopo, l’appagamento del piacere sessuale aveva una funzione per me terapeutica.
Ma la ricerca dell’appagamento di questo piacere essendo il risultato di impulsività e non riuscendo io a comprendere le conseguenze di determinate azioni fu più volte causa di grande imbarazzo per la mia famiglia e inevitabilmente anche per me, seppur forse più a causa della percezione del loro imbarazzo che per una reale comprensione dell’inadeguatezza di quel determinato comportamento.
Tutte ciò se non si sa perché accada, se non si sa qual è il meccanismo che causa quel problema, rende vittime inconsapevoli e accresce il senso di vergogna, confusione, imbarazzo, “sporcizia” iniziando a nutrire la convinzione che si è sbagliati. E questo è un colpo pesantissimo alla traiettoria evolutiva, questo è l’inizio della profezia che si autoavvera.
Ecco allora la genesi del disturbo psichiatrico, della disabilità secondaria, che è più correlata a questi aspetti di incomprensione e auto-incomprensione, piuttosto che prettamente ad aspetti di alterazione della funzionalità cerebrale. È chiaro che sono le due facce della stessa medaglia, che una favorisce l’altra, però molto è causato dalla mancanza di comprensione.
È così arrivò il tempo della scuola. Sin dalle elementari, se non dall’asilo, fu subito evidente l’iperattività, la difficoltà di concentrazione, l’oppositività, disturbi nell’integrazione sensoriale: il sovraccarico si traduceva spesso in meltdown, esplosioni di rabbia dovute al troppo numero di informazioni, troppo rumore, troppe luci, troppi stimoli che andavano tutti infilandosi nella mia testa senza che il mio cervello avesse gli strumenti per elaborarli e integrarli. Per molti anni non tollerai le etichette delle magliette o certi tessuti tipo il jeans, dovendo indossare pantaloni di velluto ben poco alla moda. Cambi repentini dell’umore: il giorno prima ero il cocco della maestra, il giorno dopo ero nervosissimo, rispondevo male, insultavo e quindi venivo punito perché, chiaramente, quel comportamento non veniva compreso come un problema neurologico, ma veniva interpretato come il comportamento di un bambino viziato o maleducato che va punito. Di contro, fu subito evidente la mia grande fantasia, la creatività, la facilità con cui parlavo alla classe.
E così, giorno dopo giorno, incomprensione dopo incomprensione, punizione dopo punizione, umiliazione dopo umiliazione la mia traiettoria evolutiva s’indirizzava sempre più verso il disastro, ben lontana invece da quel lavoro di co-costruzione di una vita, di un’identità in cui si sia consapevoli di quello che ci succede e si possa tendere alla maggior autonomia possibile e al sincero rafforzamento dei punti di forza. Nella definizione di questa traiettoria, ha un ruolo vitale anche la ridefinizione delle aspettative dei genitori e questo non è un passaggio facile e scontato, perché necessita dell’accettazione della disabilità del proprio figlio. Questo non è mai facile, ma nei genitori adottivi, che spesso vengono traditi da chi si occupa dell’adozione in quanto vengono omesse informazioni e sminuite problematiche che invece poi esplodono nel nucleo familiare causando danni irreparabili, ciò può risultare anco più difficile.
Ed ecco quindi il concretizzarsi della seconda disabilità secondaria: il fallimento scolastico; la prima era il comportamento sessuale inappropriato.
Ad un certo momento mi sono reso conto che non riuscivo proprio a seguire e capire alcune materie in particolare e questo mio non riuscire si è trasformato in una grande paura. Cominciai a fare di tutto affinchè i miei genitori mi esonerassero dall’andare ad alcune lezioni quelle matematico-scientifiche. Il solo pensiero di dover entrare in quella classe mi metteva una grandissima ansia, non perché ci fosse un problema con l’insegnante, anzi, ho ricordi molto buoni di quell’insegnante, ma proprio perché c’era un blocco da parte mia che nasceva dalla percezione di non riuscire a comprendere quello che il resto della classe invece comprendeva.
Il tempo non ha risolto nulla, anzi il tempo ha sommato i problemi e così ho visto aumentare la frustrazione della mia famiglia, ho visto mia madre andare a piangere di maestra in maestra, di professore in professore, pregando che mi aiutassero, che mi promuovessero. Ho visto la mia famiglia nascondere ogni cosa che facevo in modo inadeguato a scuola, con gli amici e più l’età aumentava e più aumentava questa inadeguatezza.
In realtà posso dire che li ho visti nascondere me, e questo, che capisco in realtà solo oggi mentre scrivo, è molto triste e ricade a mio avviso tra le disabilità secondarie della FASD. Purtroppo, in quegli anni è mancata completamente la possibilità, o forse non si è voluto fare perché la cultura di quel tempo suggeriva questo, una valutazione delle mie abilità cognitive, intellettive e psichiche, ma ci si è limitati a mettere sotto al tappeto, a mettere una pezza mano a mano che veniva fuori un problema.
Vivevo in un paesino di poche migliaia di abitanti molto borghese, cosa che ha contribuito a un atteggiamento “omertoso” che ha reso possibili tutte queste azioni di contenimento, nascondimento, mistificazione agite dalla mia famiglia, forte anche del potere che il loro nome aveva in quel luogo. Così, vuoi per le conoscenze di quel tempo, vuoi per l’atteggiamento familiare prevalse la visione psichiatrica, la visione psicanalitica, rispetto alla spiegazione organica dei miei comportamenti, prevalse la visione “è la conseguenza dell’abbandono, è quello che succede ai figli adottati”, che certo ha una parte di verità, ma solo una parte appunto.
Quando oggi m’immagino nella pancia della mia mamma mentre bevo la birra o il vino che sta bevendo lei, mentre fumo l’hashish che fuma lei o mentre assorbo l’eroina che lei si sta iniettando mi sembra così ovvio, chiaro, semplice comprendere come poi il mio comportamento, le mie abilità di comprensione, i miei sensi siano stati così deficitari. Ma a quell’epoca eravamo anni luce lontani dal poter pensare a queste cose e invece eravamo in quel periodo storico in cui, purtroppo, la psicanalisi ha fatto un po’ il lavaggio del cervello a tutti e quindi ogni cosa veniva osservata secondo questa chiave di lettura. E ciò, purtroppo ha fatto molti danni, basti vedere la storia dell’autismo: la mamma frigorifero etc. Suggerisco la visione di “Le Mur”, documentario francese che squarcia il velo su questo argomento.
All’età di 12 anni è cominciato l’uso dell’alcol (la terza disabilità secondaria) e già prima avevo iniziato a fumare tabacco; dai 16/17, poi, gradualmente ho provato tutte le droghe del tempo. Così come mia madre naturale, così come i suoi fratelli, così come mio fratello, così come mio padre. L’obiettivo era l’alterazione dello stato di coscienza. L’obiettivo era non soffrire. L’obiettivo era essere accettato dal gruppo, non riuscendo a stringere relazioni proficue. L’obiettivo era non essere dentro la mia testa, ma, attraverso l’uso di queste sostanze, cercare quella cura che io, d’altronde, da sempre cercavo perché il mio disagio, la mia sofferenza non li ho mai nascosti, ma li ho sempre urlati. Purtroppo, nel corso del mio cammino, non ho mai trovato professionisti che fossero in grado di capire, in realtà, quello che mi succedeva. In fondo banalmente perché non conoscevano la FASD e sappiamo bene che noi riconosciamo quello che conosciamo. Quindi nessuno ha mai pensato che avessi un disturbo del neurosviluppo e quindi tutti si sono concentrati esclusivamente sugli aspetti psichiatrici. A 22 anni in 5 minuti uno famoso psichiatra mi ha fatto la diagnosi di disturbo bipolare (quarta disabilità secondaria) che fondamentalmente aveva il solo scopo di potermi somministrare dei farmaci. Da quel momento, mi sono stati prescritti tutti i principi attivi possibili e immaginabili che il mercato proponesse per arrivare poi alla terapia ad vitam con Litio, Depakin, Rivotril e Metadone
Fortunatamente non ho mai smesso di credere che potesse esserci un futuro migliore, che potessi conoscere la serenità e non ho mai smesso di dubitare, interrogarmi e confidare che avrei incontrato dei professionisti seri, onesti che avrebbero eticamente scelto di aiutarmi.
Ma molti anni passarono nel buio: comunità terapeutica, infiniti ricoveri in reparti psichiatrici, vita per strada, giustizia (quita e sesta disabilità secondaria) incapacità di mantenere un lavoro (settima), ma alla fine quella traiettoria che sembrava ormai immutabile ha virato: sono riuscito a smettere di bere, di usare droghe, di prendere psicofarmaci e da poco più di un mese anche di fumare. All’ottenimento di questi risultati ha contribuito in modo assai determinate lo sviluppo di altre condizioni di salute che la psichiatria e la famiglia purtroppo hanno lungamente negato, imputandole a ipocondria o conversione. Questo ha fatto sì che dentro di me si sia generata una profonda voglia di riscatto, di giustizia. Ho cominciato a dirmi: “si, d’accordo, io ho sbagliato; d’accordo vi ho fatto soffrire, però ho sofferto anch’io e ora, tanto è il mio diritto di avere giuste cure, tanto il vostro dovere di aiutarmi.” Purtroppo, però non fu così semplice e fui costretto a iniziare una battaglia per sopravvivere con la mia famiglia e con i medici che fingevano di non vedere quali fossero i reali problemi di salute che si stavano ormai innegabilmente evidenziando e alla fine purtroppo ho avuto ragione io: ignoranza, supponenza, vergogna, stigma mi stavano per uccidere e di certo mi hanno rubato quasi 20 anni di vita!
A questo punto l’ipotesi che alla base della malattia neuromuscolare vi fosse un’alterazione genetica che, in parte, è stata confermata, mi ha spinto ad affrontare la ricerca delle informazioni sulle mie origini biologiche. Ho allora affrontato tutto l’iter giuridico italiano e così ho ottenuto il nome di mia madre che purtroppo era morta di AIDS. Grazie al decreto del Tribunale che mi permetteva di conoscere il nome di mia madre ho potuto, da un lato ricostruire i rapporti con quella parte di famiglia che è ancora in vita, poca, perché purtroppo tutti hanno subìto in qualche modo le conseguenze dell’esposizione all’alcol: una vera e propria epidemia, una vera e propria catena plurigenerazionale; dall’altro ricostruire quella che era stata la vita di mia madre che vi ho raccontato. Ho pertanto avuto la conferma che durante la gravidanza e, purtroppo, anche dopo, era stata schiava della dipendenza da alcol, sostanze, tabacco. psicofarmaci e che aveva avuto una vita di grande sofferenza. Questo ha, all’età di 40 anni, permesso, insieme alle valutazioni di tipo cognitivo, comportamentale, alla rilettura della mia anamnesi neonatale e dell’infanzia di arrivare a fare una diagnosi di ARND e al contempo ho scoperto che lei, verosimilmente, aveva a sua volta la FASD. L’alcolismo cronico di mio nonno pare aver lasciato segni inequivocabili sulla sua prole…: la mia mamma è nata con un lieve ritardo intellettivo e con una serie di disturbi neurocomportamentali evidenti sin da bambina esitati poi in tutte quelle che oggi conosciamo come disabilità secondarie.
Quando a 40 anni ho finalmente avuto la diagnosi per me è stata una liberazione, è stata una cosa che in qualche modo posso definire “magica” perché a un tratto ho potuto rispondere alla serie infinita di domande che mi portavo dentro da che ho memoria. Domande che erano relative al mio comportamento, alle mie difficoltà, erano relative a quelle situazioni che vivevo in un certo modo e non riuscivo a capire perché vivevo in quel modo. E da quando è arrivata la diagnosi ho cominciato a leggere, ad approfondire cosa significasse questa diagnosi, cos’era la FASD, in cosa consisteva, che sintomi aveva. E più leggevo, più studiavo, più approfondivo, e più mi rivedevo in ogni cosa e pensavo: “Ecco perché mi succedeva questo quando ero negli ambienti rumorosi! Ecco perché avevo quelle reazioni violente, esplosive che non riuscivo a controllare! Ecco perché avevo quell’iperattività sessuale già così piccolo! Ma allora non sono pazzo! Allora non sono sbagliato! Allora non devo vergognarmi di me stesso, non devo sentirmi in colpa! Allora posso finalmente conoscermi, capirmi, perdonarmi e vivere!”
Questa scoperta mi ha permesso di interrompere l’assunzione degli psicofarmaci. Oggi sono più di 10 anni che non prendo più psicofarmaci per il Disturbo bipolare che chiaramente si è dimostrata essere una diagnosi errata e di comodo, non alcol, non droghe. La diagnosi è stata una rinascita, consapevolezza, ha permesso la creazione dell’associazione.
E dalla diagnosi, che è solo il punto di partenza, ho cominciato la tessitura di una grandissima rete di amicizie, di collaborazione, ho cominciato a stimarmi e a percepire di essere stimato.
Ricordo molto bene come quella diagnosi psichiatrica non mi fu mai spiegata, mai nessuno che mi abbia detto che cosa voleva dire, che cosa non voleva dire. Mi è stata fatta, mi è stato detto che per tutta la vita avrei avuto questo problema, tutta la vita avrei dovuto prendere psicofarmaci. Io però pur sottostando al volere famigliare e medico, schiacciato dal profondo senso di colpa non ho mai smesso di sentire dentro di me che in realtà non avevo il Disturbo bipolare, che ciò che sentivo era altro, era differente, ma, purtroppo, lo stigma che accompagna la persona con diagnosi psichiatrica, il peso delle azioni legate all’uso di sostanze e di alcol fa si che il mondo che ti circonda, anche quello sanitario, non ti veda più come un individuo con la sua identità, la sua personalità, le sue domande che meritano risposte, ma ti veda, fondamentalmente, solo come un colpevole e un fastidio e quindi una persona inattendibile che deve ascoltare, tacere e stare dove viene messo senza dare troppo disturbo.
Quello di cui mi sono accorto dall’osservazione della mia traiettoria evolutiva, che, come vedete, era iniziata male e si è sviluppata ancor peggio, andando sempre più verso la distruzione e l’auto distruzione, verso lo sviluppo delle disabilità secondarie, la mancanza di autonomia, di capacità critica, l’istituzionalizzazione, la sudditanza, la manipolazione, è che ad un certo punto ha trovato una prima sponda: la diagnosi, e successivamente altre: persone e professionisti che hanno accolto questa diagnosi e hanno cambiato il loro punto di vista su di me riportandomi al centro. Ero nuovamente una persona che convive con una serie di problemi complessi. Ero un essere umano che aveva necessità di aiuto e di risposte. E così, ciò che pareva essere una condanna, una storia già scritta, ha cambiato direzione.
Tutto questo è per dirvi quanto è importante questo cambio di paradigma, per sottolineare che la persona è più di una serie di sintomi da gestire a compartimenti stagni per cui hai mal di pancia vai dal gastroenterologo, cammini male vai dal neurologo, sei depresso vai dallo psichiatra, dovendo girare, girare, girare e cercando disperatamente di tirare le fila di quanto ti è e ti sta accadendo.
Io non sono solo il mio intestino o il mio cervello o i miei polmoni, io sono una persona composta da tanti sistemi interconnessi. Io sono corpo, mente e spirito e l’uno non esiste senza l’altro. Non sono io a dover girare intorno, ma è la medicina, è il sociale che deve mettermi al centro, per quanto ogni sistema oggi lo consenta, ma la direzione deve essere questa.
Ho il diritto di potermi fidare e affidare ad un Centro, ad un professionista, ad una equipe che coordini a cominciare dal prima possibile questo percorso di Cura, che è ben altro, ben più dalla prescrizione di volta in volta di un farmaco, ma è la pianificazione, costruzione, riaggiustamento delle nostre traiettorie del neurosviluppo in costante dialogo con la famiglia, la scuola, la società, la Giustizia e, innanzitutto, con me, con noi!
E se l’auspicio è il continuo dialogo, non si può che partire dalla capacità comunicativa. Nella FASD il linguaggio è spesso compromesso, lo è in particolare quello recettivo, ma lo può essere anche propriamente la capacità organica di articolarlo, a causa dei danni che l’esposizione prenatale all’alcol può aver causato a bocca, palato, gola…
Una delle cose che di più mi è pesata in questo cammino, a parte il non essere creduto e la psichiatrizzazione, è stata proprio l’assenza di una comunicazione che conoscesse le caratteristiche della FASD. E tale assenza ha impattato drammaticamente sulla mia salute mentale e sul mio percepirmi sempre inadeguato. Il fatto di avere da sempre un’ottima capacità espressiva ha nascosto invece quale fosse la mia grande difficoltà recettiva. Oggi sto leggendo perché non conosco così bene l’inglese, ma io sono una persona che ha un linguaggio espressivo molto buono, ho letto tanto nei periodo in cui il focus attentivo era più elevato, mi piace parlare, scrivere e credo di avere un vocabolario buono, ma ho invece un linguaggio ricettivo molto deficitario. Certo oggi meno di ieri. Faccio molta fatica a seguire frasi lunghe perché inizio a perdermi, ad ascoltare qualcuno se c’è rumore o se altri vicino stanno parlando, mi perdo sia nelle frasi che, mentre una persona parla, nel suo linguaggio non verbale e quindi se mi concentro sul linguaggio non verbale perdo quello verbale e viceversa. Si innescano tutti dei meccanismi per cui cambiare, per esempio, ogni volta medico è micidiale perché, molto spesso, nel corso di quella prima visita non si riesce ad avere un quadro generale che invece va delineandosi ore o giorni dopo quando il cervello pian piano comincia a rimettere insieme i pezzi e la volta successiva non c’è più la possibilità di chiedere chiarimenti perché non si ha più davanti chi ha detto quelle parole. Così in me cominciano a generarsi ulteriori dubbi, confusione, contraddizioni che vanno tutte a gravare sia sulla salute mentale, sia sull’adesione alla cura (compliance).
Per chiudere: cos’è di aiuto e cosa no?
Io credo che d’aiuto sia, prima di tutto, la semplificazione del percorso di diagnosi.
Il nostro punto di vista come associazione, condiviso anche con professionisti e altre associazioni è che si dovrebbe aprire una seria riflessione in tal senso accendendo un riflettore sulla possibilità di utilizzare i criteri diagnostici che vengono proposti dal DSM 5 per il Disturbo Neurocomportamentale associato all’Esposizione Prenatale all’Alcol (DN-EPA)
La facilità di comprendere una diagnosi è fondamentale per il paziente e per la famiglia, che devono capire facilmente qual è il problema e cosa comporti.
Sarebbe di grande aiuto la compilazione di una cartella clinica della nascita in cui sia sempre chiaramente riporto l’uso materno e paterno di sostanze tossiche e che permetta al pediatra alle prime manifestazioni di traiettorie evolutive atipiche di avere elementi chiari su cui iniziare il ragionamento clinico.
Sarebbe di grande aiuto anche che venissero fornite chiare e complete relazioni cliniche dei bambini adottati e i fascicoli sociosanitari dei genitori naturali e che i figli adottati avessero il diritto giuridico di avere accesso a questa documentazione in qualunque momento qualora non la avessero avuta al moneto dell’adozione. E’ devastante per una persona non poter ottenere la diagnosi perché l’informazione dell’esposizione all’alcol o alle droghe non è scritta o è stata riportata da una fonte non più rintracciabile o indisponibile a confermarlo.
Che cosa non è di aiuto?
Non è di aiuto continuare a credere che il cervello non sia plastico, continuare a credere che i riscontri delle valutazioni neuropsicologiche siano immutabili. Continuare a credere che i sintomi psichiatrici corrispondano sempre a patologia psichiatrica e che essa non abbia possibilità di cura.
Non è utile ed è dannoso continuare a giudicare e interpretare il comportamento di chi ha la FASD secondo cliché e continuando a farsi tradire dall’invisibilità del danno cerebrale.
Io credo che possiamo veramente tutti insieme fare un grande passo in avanti, sempre guidati dalla scienza, e renderci conto che le traiettorie di neurosviluppo possono variare, possono variare sempre, possono variare tantissimo. Le capacità cognitive e comportamentali risentono di molti fattori insieme, risentono dell’età, risentono dell’ambiente in cui la persona vive, risentono dai farmaci che prende, risentono di come il cervello funziona, ma quel cervello però continuerà a svilupparsi e se l’ambiente intorno alla persona con FASD cambia il suo modo di porsi, il cervello della persona con FASD cambia il suo modo di reagire. In questo modo si vanno creando strategie alle quali contribuisce anche la consapevolezza profonda del disturbo che si ha, non solo “ho la FASD perché me l’hanno detto”, ma “so che cos’è quello che ho”.
Vi faccio un esempio: una mia valutazione neuropsicologica del 2010 riscontrava un “impoverimento cognitivo globale”. Anni dopo diversi aspetti di questa prima valutazione si erano profondamente ridimensionati. Questo non significa che una delle due valutazioni fosse falsa, sbagliata, ma semplicemente erano la fotografia di due momenti profondamente diversi, nel primo la mia traiettoria precipitava, nel secondo risaliva…
Altro aspetto che non aiuta è il giudizio delle difficoltà di una persona sulla base di ciò che si vede fugacemente dall’esterno. Questo è causa di grandissima sofferenza. Non è perché voi mi vedete oggi qui, così, che potete ritenere di avere elementi sufficienti a fare una valutazione delle mie capacità e difficoltà, è nella mia quotidianità, nella mia privacy, nella mia confort zone che si renderanno più evidenti. Cedere quindi a questa banalizzazione, semplificazione vuol dire essere noi stessi vittime del preconcetto e dello stigma.
Non aiuta ricevere una serie di diagnosi che si sommano: Sindrome di Asperger, Disturbo antisociale, Disturbo Borderline di personalità, Disturbo bipolare, ADHD… No, non aiuta, danneggia. Parafrasando provocatoriamente Ginsberg: “Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla psichiatrizzazione della complessità…”
Cosa aiuta?
Aiuta rendere consapevole la persona di quello che è il suo disturbo: che cosa vuole dire, da dove arriva, come si può intervenire e questo bisogna farlo il prima possibile e il più possibile perché è l’unica strada che abbiamo per ridurre drasticamente i disturbi di salute mentale, i disturbi di tossicodipendenza o alcolismo, i problemi scolastici, l’abbandono del lavoro, la disistima…
Quindi – e con questo finisco – spero di aver contribuito con la mia visione “dal di dentro” a stimolare la voglia di dialogare, ascoltare, costruire insieme a noi e non al posto nostro, questo nuovo paradigma di Cura in cui, finalmente, il nostro profondo dolore venga accolto e i nostri bisogni ascoltati!
Vi ringrazio ancora tantissimo per l’attenzione!
Lasciatemi fare un particolare ringraziamento alla Dott.ssa Diane Black per avermi invitato e per aver ritenuto utile questa mia partecipazione; alla Dott.ssa Stefania Bazzo, che è qui con me, per la pazienza, per il suo essere sempre precisa, disponibile, competente. Stefania davvero è l’unica persona che io conosca che sappia davvero tradurre nella pratica la sua profonda conoscenza teorica della FASD.
Voglio ringraziare ancora con tutto il mio cuore un vero e grande Amico: il Dott. Giuseppe Battistella che è la persona che mi ha permesso di arrivare, poi, alla diagnosi e quindi è la persona che mi ha permesso di rinascere! Senza di lui la nostra associazione AIDEFAD non esisterebbe!
E ancora un grazie personale e a nome di tutta l’Associazione alla dr.ssa Simona Pichini per l’amicizia e il supporto.
Grazie al dr. Jon Skranes per il grosso aiuto nell’organizzazione del viaggio che non era semplice e per la costante gentilezza e disponibilità.
Grazie al Consiglio direttivo di AIDEFAD, Enrica, Alessandra, Gabriella, Patrizia e Massimo per la serietà, determinazione, attenzione e passione e amicizia. Siamo una grande squadra!
E per ultima, ma non certo per importanza, il più grande GRAZIE va a Sharon, la mia compagna, che sono felice oggi abbia potuto essere qui! Grazie per riuscire a starmi vicino ormai da più di 7 anni perché so che non è facile, nonostante la dura battaglia che la vita ti ha costretto a dover affrontare. Da fuori è facile parlare, ma da dentro è dura, lo so, non è facile stare vicino ad una persona che ha la FASD per tanti motivi. Ti ringrazio per il tuo riuscire a sopportare la mia stringente necessità di routine, l’altalenanza dell’umore, il dovermi ripetere sempre le stesse cose perché le dimentico, il mio non capire il tuo scherzare, la mia continua necessità di capire ogni cosa nel dettaglio, la spesso deficitaria capacità di mettermi nei tuoi panni e in quegli degli altri, la rigidità del mio pensiero, il mio essere solitario e polemico, il peso dei traumi che purtroppo sono sempre con me…
Dunque, il mio invito a tutti quelli che, professionisti e non, sono sempre pronti a giudicare, sono sempre pronti a credere di sapere tutto, di conoscere LA verità, è di fermarsi e ragionare su quanto profondo possa essere il dolore delle persone che stanno vivendo con questa disabilità, sul dolore delle mamme naturali che hanno bevuto, sul dramma delle famiglie che non sanno come aiutare i propri figli, e su quali siano le priorità e la priorità è aiutare queste persone, queste famiglie, smettendo di giudicare, interpretare e permettendo loro di riuscire a comprendere la propria sofferenza.
“Perché se la medicina vuole davvero compiere il suo grande compito, deve intervenire nella vita politica e sociale. Deve evidenziare gli ostacoli che impediscono il normale funzionamento sociale dei processi vitali, ed effettuare la loro rimozione. “
Rudolf Virchow.
Grazie mille e un carissimo abbraccio a tutti.”
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